Lavorare con la tossicodipendenza: convivere con la frustrazione o rischiare la vita

Lavorare in ambito terapeutico nell’area delle tossicodipendenze è qualcosa che sovente viene percepito dagli operatori come un’estenuante battaglia donchisciottesca contro i mulini a vento, diretta il più delle volte verso una frustrante sconfitta. I pazienti tossicodipendenti sono generalmente percepiti come persone difficilmente recuperabili e destinati, salvo fortunate eccezioni, a cedere nuovamente all’impulso del consumo di sostanze. Esito apparentemente dimostrato dall’alto tasso di recidive e di ricadute di cui si è storicamente testimoni. Coerentemente con questa comune percezione, i pazienti tossicodipendenti che giungono a chiedere l’aiuto di Servizi o professionisti si descrivono solitamente come vittime di abitudini inizialmente percepite come ludiche e delle quali hanno progressivamente perso il controllo, arrivando a percepirsi schiavi dei propri comportamenti indesiderati.

187_stigma_pngA livello dei significati messi in gioco nella conversazione nel porre le basi della relazione d’aiuto alla quale intendono chiedere sostegno, i pazienti tossicodipendenti classicamente paiono descriversi come persone deboli che hanno ceduto a comportamenti “viziosi” per sopportare fatiche esistenziali di varia natura e si dichiarano fermamente decise a intraprendere un percorso terapeutico in direzione di una forma di “redenzione” personale; “redenzione” che prevede, innanzitutto, lo sforzo nel mantenimento dell’astinenza dal consumo di sostanze per permettere per prima cosa la disintossicazione fisica. Operando come psicoterapeuta nell’ambito di Comunità Residenziali per il trattamento delle dipendenze patologiche, mi sono spesso trovato a chiedermi quanto, di questa definizione reciproca tra paziente e operatore, partecipi al mantenimento della sintomatologia che ci si propone di contrastare – determinandone l’esito fallimentare e scoraggiante, nonché talvolta decisamente drammatico.

Watzlawick e colleghi (Watzlawick et al., 1967) hanno portato in evidenza quanto gli individui, nel loro comunicare (attività incessante e ineludibile), definiscano principalmente la relazione in corso e, tramite questa, se stessi. Il fuoco dell’attenzione passa dunque dai contenuti del discorso al processo di definizione reciproca tra i comunicanti, andando a coinvolgere gli aspetti pragmatici della comunicazione, tutti quegli aspetti della comunicazione, cioè, che influenzano il comportamento di chi partecipa allo scambio: la comunicazione relativa alla definizione di sé e della relazione modifica il comportamento di chi riceve la comunicazione, comportamento che assume le caratteristiche di una comunicazione che agisce a sua volta su chi ha emesso la prima comunicazione e così via, circolarmente.

Da questa prospettiva, la persona tossicodipendente, con la definizione di sé di cui è portatrice, molto spesso riconducibile all’idea di “qualcuno che ha perso la retta via”, individua nei Servizi, nelle strutture residenziali e nei singoli professionisti una “guida che lo aiuti a controllarsi”, modificando in tal modo, pragmaticamente, la risposta relazionale dei professionisti con cui entra in contatto. Aderire a questa implicita richiesta relazionale del paziente, impegnarsi quindi nel sostenerlo nello sforzo di mantenere l’autocontrollo necessario a un comportamento astinente, sembra essere un esempio di retroazione negativa (Watzlawick et al., 1974), dove con “negativa”  Watzlawick non intende fornire un giudizio di valore, ma indicare quello scambio comunicativo circolare che tende a mantenere immutata la situazione, qualsiasi essa sia.

Si tratta di un processo simile a quello già descritto da Gregory Bateson (Bateson, 1971) nell’analisi della sintomatologia comportamentale propria dell’alcolismo. Bateson, mettendo in luce quanto la stessa idea di senso comune che vuole che l’alcolista debba controllarsi e resistere alla tentazione di bere sia proprio il presupposto di pensiero che lo porta a perdere il controllo del proprio comportamento, identifica alla base della sintomatologia del comportamento alcolista una struttura di significato che ha l’effetto pragmatico di condannare l’alcolista a una perpetua e logorante battaglia, destinata a un’inevitabile sconfitta, contro la propria tentazione.

health_data1La mia risposta alla domanda posta inizialmente è quindi che sì, l’aderenza alla definizione della relazione proposta dal paziente (e dal senso comune in generale) probabilmente partecipa al mantenimento del sintomo da consumo compulsivo di sostanze. I professionisti coinvolti, a vario titolo e in diversi setting terapeutici, nel trattamento di pazienti tossicodipendenti sembrano essere portati, per naturale risposta pragmatica alla cornice relazionale proposta dal paziente, a confermare la narrazione di quest’ultimo, comunemente caratterizzata dallo sforzo di tenere sotto controllo l’impulso irresistibile a un comportamento indesiderato. Impegnandosi nel sostegno della persona in questo sforzo, i professionisti e gli operatori del settore si trovano involontariamente a agire coerentemente con i presupposti del sintomo che intendono contrastare. Tale coerenza pare assumere la forma di quella retroazione negativa che contribuisce al cementarsi della percezione delle storie di tossicodipendenza come di storie immutabili e, salvo alcuni casi fortuiti, destinate invariabilmente alla ricaduta. Solo un radicale cambio di paradigma potrebbe permettere agli operatori coinvolti nel trattamento di pazienti tossicodipendenti di modificare questo circuito conversazionale dagli esisti infausti, un cambio di paradigma reso però difficilmente concepibile proprio dalla drammaticità delle biografie dei pazienti in questione e dalla posta in gioco in caso di fallimento terapeutico (che spesso coincide con la stessa vita del paziente in carico), condannando i pazienti a convivere con l’angoscia del rischio continuo di “ricaduta” e gli operatori con un frustrante senso di impotenza.

Marpa Simone Crisciani

Psicologo, Psicoterapeuta, direttore scientifico Master in Dipendenze Spazio IRIS

BIBLIOGRAFIA

Bateson G. (1971). The Cybernetics of Self: a Theory of Alcoholism. Psychiatry, vol. 34, 1-18. [Trad. It.: La cibernetica dell’”io”: una teoria dell’alcolismo, in Verso un’ecologia della mente. Milano, Adelphi (1976)]

Watzlawick P., Weakland J.H., Fisch R. (1974). Change, principles of problem formation and problem solution. New York, Norton. [Trad. it.: Change, sulla formazione e la soluzione dei problemi. Roma, Astrolabio (1974)]

Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson D.D. (1967). Pragmatics of Human Communication. New York, Norton. [Trad. it.: Pragmatica della comunicazione umana. Roma, Astrolabio (1971)]

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