Se solo avessi un altro attimo – Storia di un equilibrista

“Solo un altro attimo forse basterebbe. Solo un altro attimo forse ti aiuterebbe a capire quanta paura c’è, anche se tutto questo durerà un attimo. Tiro un respiro lungo, infinito, le mie gambe tremano, che fatica fare l’equilibrista. Fermo, sospeso, immobile. Quest’attimo si moltiplica da solo. Ora somiglia a ciò che mi aspetta.

È il 10 settembre, fuori c’è caldo, eppure questo vento mi appare gelido e tagliente come una lama invisibile.
Da qui la città sembra diversa con tutte queste dita rivolte verso il cielo, giù mia madre e mio padre guardano la tv e forse mi aspettano; io penso di no – loro dicono di sì, ma io penso di no. Nessuno mi aspetta, non ho nessun appuntamento, nemmeno con me stessa. 22 anni vissuti a piano terra.
Quando sei immobile il tempo ti sembra diverso, è un compagno che dorme come te e respira profondamente. Ma quando sei sveglio – quel tic tac, tic tac, che odio; gli occhi spalancati quasi avessi lasciato le palpebre da qualche parte, nascoste come fanno i cani con il proprio osso. 22 anni vissuti senza qualcuno che mi difendesse da troppa luce, il buio come unico conforto.
È un po’ di tempo che il mondo, quello fuori, ha perso le mie tracce e io le sue, l’unico posto che frequento è la mia stanza, non sento nemmeno più le macchine che passano sotto questo finestrone troppo luminoso; se non fosse per il tonfo che esplode dietro la porta quando i miei mi esortano ad uscire, penserei di essere sorda. Già, i miei, si arrabbiano perché la mattina non ho voglia di alzarmi, io non so perché non ne ho voglia. 

Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, un quesito fondamentale; il resto viene dopo, prima devo rispondere.

I dati Istat del 2013 contano 4291 suicidi sul territorio nazionale, con una prevalenza del sesso maschile su quello femminile. Questi dati ci posizionano come paese a “rischio medio” rispetto alla possibilità di suicidio. Anche i giovani non sono esterni a questa indagine statistica: nell’ultimo anno sono stati 78 i casi di ragazzi e ragazze fino ai 19 anni che hanno compiuto questo gesto irreparabile.

Se i dati fanno preoccupare, quello che più spaventa e ci rende totalmente impotenti, è il silenzio che avvolge spesso queste storie, ognuna diversa dall’altra: strade diverse verso la stessa meta.

Probabilmente è necessario parlare di più del suicidio, disassuefarsi da obiettivi sensazionalisti – tipici della narrazione mediatica, offrendo un rilancio culturale il cui obiettivo non sia semplificare la questione, ma permettere a quante più persone l’accesso a spiegazioni che tengano conto della complessità di queste storie e di questo atto. Spesso assistiamo invece ad una normalizzazione del suicidio che restituisce un’anestetizzazione dell’animo umano, una de-sensibilizzazione che porta a considerare questi atti come qualcosa che “succede”. Davanti a qualcosa di forte, impetuoso ed incontenibile, scivolare nella normalizzazione ci offre quel sentore di apparente serenità, ma ci allontana inesorabilmente dall’affettività e ci diseduca ad una vita esposta all’imprevedibilità e alla diversità.

Mi sono chiesto spesso, se le persone che pensano al suicidio siano però realmente capaci di parlarne. Mi sono chiesto, anche, se la difficoltà di parola non abiti anche nella capacità di domandare senza aver paura delle risposte. Ad oggi, mi sono reso conto che la riluttanza delle persone non coincide con l’impossibilità di parlare, ma che fare il primo passo è davvero difficile, sia nel domandare che nel parlare: affrontare la carica emotiva di chiedere conto alle persone di eventuali idee suicidarie è però, a mio parere, la strada per abbracciare le persone nella loro complessità.

Non è possibile affrontare in poche righe questo fenomeno molto ampio – non solo per differenze nella casistica, ma proprio per la sua natura che coinvolge sia chi compie l’estremo gesto che tutti e tutto ciò che ne sta intorno.

Oggi voglio lasciarvi con l’idea che è possibile fare prevenzione, perché qualcosa si può fare. Prevenire i comportamenti suicidari passa per l’educazione e l’informazione della popolazione sui disagi psicologici e sulle terapie (numerose) ad oggi disponibili. Internet ci offre la possibilità di prendere contatto con molti contesti professionali che, spesso, possono offrire alle famiglie spunti e nuovi modi di pensare ai rapporti diluendo le difficoltà nell’ascoltare i nostri figli, i nostri compagni nelle loro diversità.

Dobbiamo iniziare a contemplare la diversità del genere umano, così da contrastare lo stigma che spesso ruota intorno alla psicopatologia, per aprire la strada all’ascolto e far sì che sia possibile pensare che esistono professioni e professionisti (psicologi, psicoterapeuti, psichiatri) capaci di accogliere il dolore che ci attanaglia.

 

Tiziano Schirinzi 

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