Sappiamo ancora scrivere messaggi d’amore?

Oggi si celebra il Word Emoji Day. Se vi state chiedendo di cosa stiamo parlando, sappiate che lo sapete anche se pensate di non saperlo. Le emoji sono quei pittogrammi o ideogrammi che utilizziamo continuamente nella comunicazione attraverso i sistemi di messaggistica e i social network. Loro antenate sono le emoticon, quelle particolari combinazioni di segni di punteggiatura che rappresentano facce con diverse espressioni ed emozioni.

Facebook stima che sulle bacheche dei suoi utenti ne compaiano almeno 60 milioni nell’arco di una sola giornata. E nel 2015, il dizionario di Oxford ha scelto una emoji, la faccina che ride, come parola dell’anno.

Emoticon ed emoji sembrano davvero essere diventate le protagoniste della comunicazione scritta. Esse hanno significato una rivoluzione nel modo di comunicare: senza fare ricorso all’uso di parole, di metafore e/o immagini complesse le emoji permettono di condividere emozioni e stati d’animo, nonché di limitare l’ambiguità dei messaggi scritti quando quello che il parlante vuole trasmettere non è esattamente quello che dice, per esempio nel caso del sarcasmo, dell’ironia o dello humor.

Ma siamo davvero sicuri che questo linguaggio iconografico sia universale e transculturale? In che modo parla di noi? E, ancora, in che misura può influenzare il nostro comportamento e le nostre modalità relazionali?

Alcune ricerche nel campo della sociolinguistica e della linguistica transculturale hanno evidenziato che esistono non poche differenze nell’utilizzo di emoticon ed emoji nei diversi Paesi. Gli occidentali, ad esempio, tendono ad utilizzare soprattutto la bocca per descrivere gli stati emotivi, mentre gli orientali usano principalmente gli occhi. Lo smile sorridente occidentale ha bocca grande e occhi piccoli, mentre l’orientale ha occhi grandi e bocca molto piccola. Questo perché nella cultura giapponese le persone tendono a sorridere solo con gli occhi e, quando il sorriso viene accennato anche con la bocca, si coprono la bocca con la mano. Anche la disposizione nello spazio è differente a seconda della cultura. Le emoticon in stile occidentale sono orizzontali, cioè scritte da sinistra a destra con la testa ruotata in senso antiorario di 90 gradi, per cui gli occhi sono sulla sinistra, seguiti dal naso (spesso non incluso) ed infine dalla bocca. Invece, le emoticon orientali sono verticali, generalmente non ruotate, e possono includere caratteri non latini per aggiungere ulteriore complessità.

Anche per quanto riguarda la frequenza d’uso delle emoji ci sono delle differenze curiose da Paese a Paese. In Italia, Spagna e Francia l’emoji più utilizzata è la faccina con il bacio a cuore, in Giappone, Olanda e Norvegia l’icona dei coriandoli a festa.

Secondo una ricerca britannica l’uso di emoji ed emoticon può modificare la percezione che gli altri hanno di noi e influire sulle nostre relazioni sociali. Il più delle volte usiamo le emoji come i gesti, come un modo di valorizzare le espressioni emotive. Le persone formulano giudizi su di noi anche in base a come usiamo le emoji.

L’utilizzo delle emoji varia inoltre in base al genere. Le donne sembrano utilizzare più frequentemente e in relazione a sentimenti positivi, riuscendo persino ad interpretarle in modo più corretto degli uomini. Questi ultimi invece ne fanno uno strumento più funzionale, associandole prevalentemente a discorsi sarcastici, riducendo così l’ambiguità delle proprie affermazioni.

Se da un lato il ricorso a questo linguaggio iconografico ci permette di comunicare un’idea, un’emozione, una sensazione senza l’uso delle parole, a volte si ha l’impressione che un loro utilizzo massivo rischi di appiattire la comunicazione emozionale a un alfabeto stereotipato che ci fa perdere reale consapevolezza di quello che sentiamo.

Oggi le relazioni sono molto spesso dominate da una comunicazione basata sull’uso massivo di emoji ed emoticon per esprimere le emozioni al punto che potremmo dire che questo linguaggio iconografico ha in gran parte sostituito le parole d’amore. E allora viene da chiedersi, sappiamo ancora scrivere messaggi d’amore?

Agli inizi del secolo scorso Sibilla Aleramo scriveva così al suo amato: “È vero che vuoi ch’io ritorni? Come una bambina di dieci anni. È vero che mi aspetti? Rivedere la luce d’oro che ti ride sul volto. Tacere insieme, tanto, stesi al sole d’autunno. Ho paura di morire prima. Dino, Dino! Ti amo. Ho visto i miei occhi stamane, c’è tutto il cupo bagliore del miracolo. Non so, ho paura. È vero che m’hai detto amore! Non hai bisogno di me. Eppure la gioia è così forte. Non posso scriverti. Verrò il 19. dovunque. Il 14 resterò qui; a Firenze andrò poi per un giorno. Son tua. Sono felice. Tremo per te, ma di me son sicura. E poi non è vero, son sicura anche di te, vivremo, siamo belli. Dimmi. Io non posso più dormire, ma tu hai la mia sciarpa azzurra, ti aiuta a portare i tuoi sogni? Scrivimi.”

E’ un messaggio d’amore di un tempo lontano, è un esempio di un modo di esprimere emozioni e sentimenti attraverso le parole, una capacità che forse stiamo un po’ perdendo immersi come siamo nel mondo digitale della comunicazione istantanea. Senza voler demonizzare le emoji, utilizziamole con parsimonia e non perdiamo di vista la potenza creativa delle parole. Alleniamoci ancora a pensare e a scrivere parole d’amore.

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